Italia, il Paese che ha paura di cambiare: riflessioni per donne che vogliono ricominciare da sé
- Armonia di Stile

- 30 set
- Tempo di lettura: 6 min
Questo articolo è stato diviso in due parti per offrirti una lettura più calma e profonda.
In questa prima parte esploriamo cosa ha portato l’Italia – e molte donne – a vivere una fase di stallo invisibile, fatta di resistenze interiori e culturali.
Alla fine della pagina troverai il link per leggere la seconda parte.
L’Italia è un Paese meraviglioso, pieno di storia, cultura, genialità e intuizioni straordinarie. Ma è anche, oggi più che mai, un Paese che ha paura di cambiare.
Lo si avverte nei discorsi quotidiani, nei titoli dei giornali, nelle chiacchiere al bar o nei commenti sotto i post.
È come se si fosse diffuso un cinismo velato, un senso di sfiducia costante, una voce interiore che ripete: "tanto è sempre stato così".
Ci siamo abituati all’immobilismo, al compromesso, alla gestione dell’esistente. Ma dentro molte donne — forse anche dentro di te — si muove qualcosa: un disagio sottile ma profondo; un’inquietudine che non si placa e la sensazione che, in fondo, questa vita così non basti.
Questo articolo non è un'accusa, non cerca colpevoli, forse cause, ma più che altro è un invito a guardare le cose da un altro punto di vista, a chiederci insieme: com'è successo che un Paese pieno di potenziale sia diventato incapace di crederci davvero?
E soprattutto: cosa possiamo fare, noi donne, per non farci risucchiare da questa paralisi?
Perché ricominciare da sé, oggi, è forse l’atto più rivoluzionario che possiamo compiere.
CHI ERAVAMO: UN PAESE CHE SOGNAVA IN GRANDE
Un tempo non eravamo così.
L’Italia, nonostante le sue mille contraddizioni, con tante differenze culturali che si estendono da nord a sud e sulle sue isole, era attraversata da un’energia potente: quella della visione.
C’era l’orgoglio di costruire, di innovare, di immaginare il domani con occhi brillanti e mani impazienti di fare, anche durante le guerre che l'hanno attraversata, anche nei profondi cambiamenti che la scuotevano, quando ogni sfida diventava un'occasione per rialzarsi con ancora più dignità.

Eravamo il Paese degli artigiani e degli architetti, delle sartorie e delle botteghe, della creatività che si trasformava in stile, della scienza che si faceva intuizione.
Abbiamo unito il Paese partendo da lingue diverse, abbiamo creato ponti, autostrade, invenzioni, movimenti. Siamo stati capaci di rialzarci dopo guerre, crisi e fallimenti. E lo facevamo insieme, nonostante le difficoltà.
Certo, c’erano storture, ferite, ingiustizie, ma c’era anche un sogno condiviso, un’idea di futuro, la sensazione, palpabile, che si potesse andare avanti.
Non è un caso se siamo diventati la quarta potenza mondiale, nonostante le nostre dimensioni ridotte, e non è un caso se ci chiamavano “il Bel Paese”.
Abbiamo dato al mondo il Rinascimento, rivoluzionando l'arte, il pensiero e la visione dell'essere umano. Abbiamo ispirato correnti filosofiche, fondato scuole e università, scritto una Costituzione che ancora oggi viene studiata come esempio di equilibrio e lungimiranza. Siamo stati culla di innovazione, anche nella moda, nel design, nel cibo, nella cultura. Abbiamo trasformato lo stile in linguaggio identitario.
E allora la domanda è inevitabile: quando abbiamo smesso di crederci??
IL PRESENTE: UN PAESE CHE HA PAURA DI CAMBIARE
Oggi l’Italia sembra aver perso quella scintilla, ci muoviamo in un’atmosfera sospesa, dove si preferisce la prudenza all’audacia, la gestione del presente alla progettazione del futuro, dove preferiamo uniformarci invece che esporci.
È come se la rassegnazione avesse preso il posto del desiderio, come se ogni tentativo di cambiamento venisse accolto con un’alzata di spalle, un commento sarcastico, una scrollata di testa.
La paura di cambiare è diventata sistemica. La vediamo ovunque, nelle istituzioni, nelle aziende, nella scuola, ma anche nella vita quotidiana: nelle famiglie, nei piccoli paesi, nei condomini.
È una paura che si maschera da buon senso, ma che in realtà immobilizza. Che dice “meglio non rischiare”, “meglio non esporsi”.
Le cause sono molteplici e interconnesse:
Un sistema educativo spesso fermo e trasmissivo, più orientato alla disciplina che al pensiero critico. Si studia per prendere il voto, non per aumentare o perfezionare le competenze. Si insegna a conformarsi anche in un'epoca dove le soft skills dovrebbero essere pilastri.
Un mercato del lavoro instabile, con un modello gerarchico troppo diffuso, che penalizza la creatività e l’iniziativa personale. Serve il "capo".. ne deriva che i dipendenti non si fidano dell'azienda dove lavorano e l'azienda non si fida dei dipendenti che assume e paga.
Uno storytelling mediatico che alimenta sfiducia, paura e polarizzazione: le buone notizie fanno meno notizia, e il cambiamento viene spesso rappresentato come fallimentare o irrealistico. Non si riportano i fatti, si riportano opinioni, che dovrebbero spettare a chi ascolta la notizia.
La politica, con le sue promesse mai mantenute, ha finito di dividere le persone invece di unirle. Le ha illuse durante le campagne elettorali, per poi deluderle una volta entrati al comando. La gente comune oggi si ritrova costantemente ad assistere a dibattiti, spesso accesi, più focalizzati sulla ricerca del colpevole che sulla costruzione di soluzioni.
Una cultura del giudizio ha preso il sopravvento e frena chi prova a cambiare, etichettandolo come illuso, arrogante o strano. Un giudizio che spesso nasce dalla paura, non dalla cattiveria, dalla fatica di accettare che il cambiamento altrui metta in discussione la propria immobilità. E allora si attacca, si banalizza, si ironizza. Così si crea un clima che scoraggia l'iniziativa e addestra al silenzio.
Una narrazione sociale che ha smesso di valorizzare l’ambizione e il merito, sostituendoli con il compromesso e la sopravvivenza.

L’Italia che lavorava con passione e dignità. Mani, strade, insegne e saperi tramandati come patrimonio vivo.
Quante volte ci capita, ad esempio, di vedere questa situazione sotto uno tanti post presenti sui social: leggiamo commenti di rabbia, polarizzati, a volte anche offensivi, diretti sia verso gli autori, sia verso altri commentatori.
Ma se c'è qualcosa che ho imparato è che la rabbia nasconde sempre un disagio: è un modo per dire ci sono anche io. È il linguaggio di chi non si sente ascoltato, di chi ha visto i propri sogni evaporare e ha smesso di credere che cambiare sia possibile; è il segnale di una ferita più profonda: quella di una collettività che ha smarrito la fiducia e ha confuso la sopravvivenza con la vita.
In questo clima, molte donne crescono credendo di doversi adattare, resistere, accontentare. Hanno interiorizzato il messaggio che “ambire è pericoloso”, che “è meglio non disturbare”, che “bisogna stare al proprio posto”.
Così la speranza viene archiviata, l’ambizione diventa sospetta, la crescita personale, un lusso.. ma non è così che si costruisce una società viva.
Senza un cambiamento di mentalità, nessun vero progresso è possibile e questo cambiamento non può essere solo collettivo: deve partire da ogni singola persona che decide di dire “basta”.
E tu, sei pronta a dire basta e ricominciare da te?
IL PESO DELLA MENTALITÀ: RESISTENZE INTERIORI CHE CI BLOCCANO
Quando parliamo di cambiamento, pensiamo spesso a fattori esterni: le leggi che non aiutano, i sistemi che non funzionano, le opportunità che mancano. Ma il cambiamento, quello vero, parte da dentro ognuno di noi.
Esistono convinzioni radicate, quasi invisibili, che condizionano le nostre scelte più di quanto immaginiamo. Sono voci interiori che ripetono frasi come: “Non fa per me”, “È troppo tardi”, “Non ne sono capace”, “Chi sono io per provarci?”.
Queste frasi sono il riflesso di un condizionamento culturale e generazionale: anni di educazione al sacrificio, al dovere, alla rinuncia, anni in cui si è fatto spazio agli altri prima che a sé stesse, in cui l’ambizione è stata scambiata per arroganza, l’autonomia per egoismo, il desiderio di cambiare per incoscienza.
E allora si resta immobili, ma stanche, si va avanti, ma svuotate; si fa, ma senza sentirsi davvero vive.

Non è forse questo il motivo di tanto malcontento, talvolta mascherato da invidia?La vita stessa è evoluzione, cambiamento, nulla rimane immutato, perché dovremmo farlo noi?
Perché dovremmo rassegnarci ad una vita piatta che si riduce soltanto ad una lista infinita di cose da portare a termine entro la fine della giornata?
Il cambiamento, per essere possibile, ha bisogno prima di tutto di una nuova narrativa interiore, una voce diversa, una che dica: “Posso provarci”, “Merito una possibilità”, “Non devo chiedere il permesso”, "non so farlo, ma posso imparare", "mi piacerebbe, provo a renderlo possibile".
Solo quando iniziamo a cambiare il modo in cui ci parliamo, possiamo davvero cambiare la direzione in cui stiamo andando.
continua a leggere la seconda parte..


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